La stagione dell’Associazione Alessandro Scarlatti ha ospitato, nella stessa serata, due eccellenze della musica da camera internazionale, il Quartetto di Cremona ed il Quartetto Emerson.
Al primo, nato nel 2000 nell’ambito dell’Accademia Stauffer e oggi costituito da Cristiano Gualco e Paolo Andreoli (violini), Simone Gramaglia (viola) e Giovanni Scaglione (violoncello), è stato affidato il Quartetto per archi in la minore op. 29 D. 804 di Franz Schubert (1797-1824).
Scritto nel 1824, il lavoro venne dedicato al violinista Ignaz Schuppanzig, che fu il primo ad eseguirlo con il suo quartetto, ed è noto anche con l’appellativo di “Rosamunde” in quanto l’andante del secondo movimento era stato composto dall’autore austriaco l’anno precedente, per le musiche di scena del dramma di Helmina von Chézy “Rosamunda, principessa di Cipro”.
Il brano contiene un ulteriore richiamo alla produzione schubertiana nel minuetto del terzo movimento, tratto dal lied Die Götter Griechenlands (Gli Dei della Grecia), concepito nel 1819 su testo di Schiller.
Per quanto riguarda il Quartetto Emerson, fondato nel 1976, deve il suo nome al filosofo e poeta statunitense Ralph Waldo Emerson (1803-1882), ed è attualmente formato dai violinisti Philip Setzer ed Eugene Drucker, dal violista Philip Setzer, e dal violoncellista Paul Watkins.
L’ensemble americano ha eseguito il Quartetto in mi minore op. 59 n. 2 di Ludwig van Beethoven (1770-1527), uno dei tre “Quartetti Razumovsky”, pubblicati nel 1808 e così definiti in quanto dedicati al conte Andrei Razumovsky, ambasciatore dello zar a Vienna, che li commissionò al musicista tedesco del quale era nel contempo amico e mecenate.
Non è quindi un caso se, nell’intera raccolta, si ritrovino richiami alla tradizione popolare russa, così come va ricordato che il nobile, discreto violinista dilettante, supportò economicamente anche il Quartetto Schuppanzigh, nel quale suonò in alcune occasioni come secondo violino.
Dopo un breve intervallo i due ensemble si sono uniti per interpretare l’Ottetto per archi in mi bemolle maggiore op. 20 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847).
Composizione risalente al 1825, quando il musicista aveva appena sedici anni, risultava all’epoca una autentica novità riguardo all’organico in quanto, fino ad allora, gli ottetti erano affidati ad archi e fiati, ed eseguivano brani disimpegnati, di impronta tipicamente salottiera.
Il solo ad utilizzare esclusivamente archi era stato Spohr, che però aveva creato brani definiti “Doppi quartetti” pensati per un quartetto d’archi principale, accompagnato da un quartetto d’archi “secondario”.
Mendelssohn, invece, costruì un tessuto sonoro, al quale dovevano contribuire in ugual modo tutti gli strumenti, in modo da ottenere un risultato indicato dallo stesso musicista sulla partitura, dove appose la frase: “Questo Ottetto va suonato da tutti gli strumenti nello stile di un’orchestra sinfonica. I piani e i forti vanno rispettati attentamente e sottolineati con più forza di quanto si usa in opere di questo genere”, affermazione già di per sé di grande modernità e, se pensiamo alla giovanissima età del musicista, rimaniamo ancora più sbalorditi.
Uno sguardo, ora, ai protagonisti della serata che, dall’alto delle differenti esperienze, si sono confrontati ottimamente con i brani di Schubert e Beethoven.
Il Quartetto di Cremona ha confermato di essere una delle migliori eccellenze italiane, grazie ad una notevole intesa fra tutti i componenti ed un suono nitido e ricco di sfumature e, dal suo canto, l’ “Emerson”, dopo più di quarant’anni di attività, portata avanti dai medesimi componenti (ad eccezione del violoncellista Paul Watkins, che nel 2013 ha splendidamente sostituito un grandissimo esecutore quale David Finckel) non sembra aver perso un briciolo di smalto e rappresenta ancora oggi una leggenda vivente in ambito quartettistico.
Nella seconda parte del concerto, i due ensemble hanno poi dato vita ad un ottetto strepitoso, vero e proprio trionfo della musica da camera, che ha esaltato tutti i protagonisti e mandato in visibilio il numeroso pubblico, consapevole di aver assistito ad un evento che rimarrà impresso in modo indelebile nella memoria dei presenti.
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