Nell’ambito della rassegna “Musica in Villa”, organizzata dal “Maggio della Musica” e affidata alla direzione artistica del maestro Michele Campanella, è ripreso il “Festival Beethoveniano”.
Il ciclo, iniziato nel 2019, che prevede l’esecuzione dell’integrale dei quartetti per archi del compositore tedesco, doveva concludersi lo scorso anno, in concomitanza con le celebrazioni rivolte al 250° dalla nascita del grande musicista, ma la pandemia ha bloccato tutto per cui l’iniziativa è ripartita solo ora, con il concerto del Quartetto Prometeo.
La serata si è aperta con il Quartetto in fa maggiore, op. 135, completato nel 1826 ed ultimo apporto a tale genere, in quanto l’autore morì pochi mesi dopo.
In questo brano Beethoven tornò ai quattro movimenti canonici e alle forme che aveva iniziato a studiare durante l’età giovanile.
Ma, ciò che ad un ascolto distratto appare di estrema semplicità, ad un’analisi più approfondita evidenzia una riduzione all’essenziale, una sorta di distillato molto lontano dalla concezione alla quale il musicista si era ispirato quando aveva cominciato la sua avventura in tale ambito, e quindi il risultato nel complesso risulta straordinariamente innovativo.
Il successivo Quartetto n. 11 in fa minore op. 95 “Serioso”, risaliva al 1810 e, nonostante appartenga al cosiddetto “periodo di mezzo” della produzione beethoveniana (secondo una catalogazione non sempre accettata, ma piuttosto utile, proposta da Wilhelm von Lenz nel suo Beethoven et ses trois styles), appare quasi precorrere la complessa ed enigmatica stagione conclusiva.
Probabilmente proprio per tale motivo, il musicista attese quattro anni prima di sottoporlo al pubblico, e ben sei per darlo alle stampe.
Inoltre, va evidenziato che l’appellativo “Serioso” con il quale è conosciuto, fu attribuito dall’autore in persona, a differenza di quanto accadde a tutti gli altri lavori beethoveniani contraddistinti da un soprannome, ribattezzati postumi secondo un’usanza cara agli editori del periodo romantico.
Chiusura con la Grande fuga op. 133 in si bemolle maggiore, che inizialmente era stata concepita come ultimo movimento del Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, composto nel 1825 che, insieme al Quartetto in mi bemolle maggiore op. 127 ed al Quartetto in la minore op. 132, faceva parte di un trittico commissionato dal principe Galitzin.
La lunghezza del movimento e le sue sonorità, insolite per l’epoca, contribuirono ad un’accoglienza assai negativa da parte del pubblico, costringendo Beethoven a dare un nuovo volto al finale dell’op. 130, che venne reso più lieve con un allegro al posto della fuga.
Quest’ultima si guadagnò in seguito una collocazione autonoma, al punto che quasi sempre oggi viene eseguita come pezzo a sé stante.
E veniamo al Quartetto Prometeo, formato da Giulio Rovighi e Aldo Campagnari (violini) Danusha Waskiewicz (viola) e Francesco Dillon (violoncello), ensemble che abbiamo già ascoltato diverse volte.
Anche in questa occasione, confrontandosi con brani di grande complessità, i quattro interpreti, hanno evidenziato grande compattezza, notevole solidità esecutiva ed una costante ricerca delle minime sfumature, oltre ad una estrema bravura come singoli solisti.
Tali peculiarità sono stata molto apprezzate dal pubblico che ha tributato scroscianti applausi ai protagonisti, ricevendo in omaggio un bis, tratto dalla produzione del musicista contemporaneo Stefano Scodanibbio, ottimo suggello ad un magnifico concerto.
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