Il francese Claude Debussy (1862-1918) è stato sicuramente uno dei grandi protagonisti del Novecento, nonostante abbia avuto poco tempo per affacciarsi su un secolo durante il quale la musica classica ha subito notevoli cambiamenti.
Il suo spirito innovativo ha comunque influenzato molte generazioni di musicisti venute dopo di lui, anche se rappresenta una figura unica, priva di eredi e impossibile da classificare.
Altra particolarità dell’autore francese, sta nel fatto che il pubblico, dalle nostre parti, lo considera una sorta di limite invalicabile.
Al di là di Debussy si sprofonda nel baratro della musica considerata “moderna”, aggettivo sotto il quale si usa accomunare i brani di tutti gli autori nati dagli albori del XX secolo ad oggi.
Ciò si deve in gran parte ai suoi suggestivi pezzi pianistici, di matrice impressionista (usando un aggettivo da lui sempre rifuggito), che hanno da sempre acceso la fantasia degli appassionati.
L’Associazione Alessandro Scarlatti ha voluto omaggiarlo con una serata, svoltasi al Teatro Sannazaro, il cui titolo “Ovunque, fuori dal mondo” si riferiva alla risposta data da Debussy a chi un giorno gli domandò dove avrebbe voluto vivere.
Il programma proposto alternava alcune letture, tratte da “Il signor Croche antidilettante” dello stesso Debussy e dal proustiano “À la recherche du temps perdu”, a tre sonate scritte dal musicista fra il 1915 ed il 1917.
Le prime erano affidate all’attrice Maddalena Crippa, mentre i secondi ad un sestetto formato da Mario Ancillotti (flauto), Matteo Fossi (pianoforte), Simonide Braconi (viola), Ekaterina Valiulina (violino), Erica Piccotti (violoncello) e Alessia Luise (arpa).
La parte letteraria evidenziava, a fianco delle celeberrime pagine di Proust, il Debussy critico musicale, che tramite Monsieur Croche, sorta di “alter ego” fortemente polemico, metteva alla berlina compositori e pubblico, con osservazioni che, ad un secolo di distanza, appaiono ancora di grande attualità.
Riguardo alle tre sonate, rispettivamente per violoncello e pianoforte in re minore L 144, per flauto, viola e arpa in fa maggiore L 145 (entrambe del 1915) e per violino e pianoforte in sol minore L 148 (1916-1917), erano state concepite nell’ambito di un progetto, che aveva fra i suoi intenti quello di omaggiare il Settecento francese e prevedeva sei sonate, per organici ridotti e talora insoliti, fermatosi a metà strada per la morte prematura del musicista.
E veniamo agli interpreti, iniziando con Maddalena Crippa che, dall’alto della sua esperienza, ha dato vita ai vari personaggi e alle vicende legate alle pagine lette, senza mai strafare, ma con notevole misura ed eleganza.
Bravissimi anche tutti e sei i musicisti, che si sono alternati nell’esecuzione di brani difficili sia da interpretare, sia da far assimilare al pubblico, evitando il rischio, in questi casi sempre in agguato, di provocare un abbassamento di tensione da parte degli spettatori.
A tal proposito, se un piccolo appunto si deve fare all’intera serata, riguarda una eccessiva lunghezza della lettura della terza parte che, posta al termine di uno spettacolo giustamente privo di intervallo, finiva per abbassare di molto l’attenzione dei numerosi presenti.
Applausi conclusivi meritatissimi che hanno preceduto una piccola coda, affidata, per la parte letteraria, ad un ricordo di Paul Hindemith, raggiunto dalla notizia della morte di Debussy mentre era al fronte e stava suonando, con altri tre commilitoni, proprio un quartetto del musicista francese, mentre quella musicale vedeva il pianista Matteo Fossi confrontarsi con l’ultima composizione di Debussy, Les soirs illuminés par l’ardeur du charbon (1917), regalata al carbonaio che lo rifornì gratuitamente durante il terribile inverno 1916-1917.
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