Fra le tradizioni che hanno accompagnato in questi anni le stagioni del “Maggio della Musica”, va annoverato il consueto appuntamento con il Fine Arts Quartet, uno dei più prestigiosi ensemble a livello mondiale, nato a Chicago nel 1946 e formato attualmente da Ralph Evans e Efim Boico (violini), Gil Sharon (viola) e Niklas Schmidt (violoncello).
Non è un caso, quindi, che la compagine sia stata chiamata per dare il suo contributo al “Festival Beethoveniano”, ciclo integrale dei quartetti per archi del grande compositore tedesco, fortemente voluto dal direttore artistico della rassegna Michele Campanella.
In tale ambito la scelta del Fine Arts Quartet è caduta sul Quartetto n. 5 in la maggiore op. 18 n. 5 e sul Quartetto n. 15 in la minore op. 132.
Il primo apparteneva all’esordio ufficiale di Beethoven in questo genere cameristico (approccio abbastanza tardivo, se si eccettuano alcuni abbozzi giovanili), costituito da sei quartetti, completati nel 1800 a seguito di una richiesta del principe Joseph Maximilian Lobkowitz, (che risultò anche il dedicatario), uno dei più importanti mecenati di Beethoven.
La raccolta venne stampata nel 1801 dall’editore viennese Mollo che, per esigenze commerciali, suddivise le sei composizioni in due gruppi da tre, e non tenne conto della cronologia di composizione.
In questo contributo iniziale, Beethoven ebbe come naturale riferimento due autori quali Mozart e Haydn, ma nel contempo lasciò intravedere nuove possibili strade che il quartetto avrebbe potuto percorrere.
Va ancora ricordato che Lobkowitz mostrò di gradire moltissimo i brani e, in segno di riconoscenza, decise di assegnare a Beethoven un vitalizio annuo di 600 fiorini, oltre ad omaggiarlo di ben quattro strumenti di elevatissimo valore (un violino ed un violoncello Guarneri del Gesù, un violino Amati ed una viola Rugeri).
Riguardo all’op. 132, essa si colloca nella fase conclusiva della produzione beethoveniana, nel pieno del cosiddetto “tardo periodo”, secondo una classificazione ancora oggi molto utilizzata, proposta da Wilhem von Lenz nell’opera in due volumi intitolata “Beethoven e i suoi tre stili”.
Risalente al 1825, venne dedicata, insieme all’op. 127 e all’op. 130, al committente Nikolai Galitzin, principe russo e violoncellista dilettante.
Il pezzo esordì nel medesimo anno a Vienna, eseguito dal Quartetto Schuppanzigh, e nel suo andamento riflette anche i seri problemi di salute avuti dall’autore in quel periodo, poi pienamente superati, al punto che il lungo e struggente movimento centrale (Molto adagio – Andante), reca come sottotitolo “Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidio”.
Inoltre, seguendo una caratteristica comune agli ultimi suoi brani, Beethoven diede vita ad un lavoro dalla concezione piuttosto particolare, che molti studiosi considerano una sorta di vero e proprio ponte con il XX secolo.
Riguardo agli interpreti, come si sarà già compreso dalle righe iniziali, siamo di fronte ad un quartetto stratosferico, il cui livello, nonostante alcuni cambiamenti di organico anche abbastanza recenti, (il violista Gil Sharon ed il violoncellista Niklas Schmidt si sono aggiunti ai “veterani” Ralph Evans e Efim Boico appena tre anni fa) è rimasto praticamente inalterato.
L’ensemble abbina un suono di grande raffinatezza ad un affiatamento perfetto, al punto che spesso si ha l’impressione di essere di fronte non ad un quartetto ma ad un’intera orchestra d’archi.
A ciò va aggiunta la capacità di far emergere le più piccole sfumature, frutto della esperienza e della sensibilità senza pari di ogni componente, per cui al termine del concerto ci si rende conto di aver assistito a qualcosa di trascendentale e si comprende perché il “Fine Arts” sia da tempo considerato uno dei quartetti migliori al mondo.
I ringraziamenti conclusivi vanno al maestro Campanella che, come accade da alcuni anni a questa parte, ha inserito l’ensemble nel programma della stagione, con il vivissimo auspicio che la tradizione prosegua anche nella prossima edizione del “Maggio della Musica”.
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