L’appuntamento conclusivo di “Due anni con Beethoven”, ciclo dedicato all’integrale dei quartetti per archi del compositore tedesco, svoltosi nella chiesa di Santa Caterina da Siena, ha visto il Quartetto Gagliano confrontarsi con la “Grande fuga” in si bemolle maggiore, op. 133 e con il Quartetto per archi n. 9 in do maggiore, op. 59, n. 3 “Razumovsky”.
Nel primo caso eravamo di fronte ad un brano collocato inizialmente come ultimo movimento del Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, composto nel 1825, nel pieno del cosiddetto “tardo periodo”, secondo la suddivisione proposta dallo scrittore tedesco Wilhelm von Lenz nella sua biografia “Beethoven e i suoi tre stili” (non accettata universalmente, ma di discreta utilità didattica).
La lunghezza del movimento e le sue sonorità, insolite per l’epoca, contribuirono ad un’accoglienza assai negativa da parte sia del pubblico, sia della casa editrice viennese Artaria, costringendo Beethoven a dare un nuovo volto al finale dell’op. 130, che venne reso più lieve con un allegro al posto della fuga.
Quest’ultima si guadagnò in seguito una collocazione autonoma, al punto che quasi sempre oggi viene eseguita come pezzo a sé stante.
Per quanto riguarda il Quartetto in mi minore op. 59 n. 3, fa parte dei “Quartetti Razumovsky”, pubblicati nel 1808 e così definiti in quanto dedicati al conte Andrei Razumovsky, ambasciatore dello zar a Vienna, che li commissionò al musicista tedesco del quale era nel contempo amico e mecenate.
Non è quindi un caso se, nell’intera raccolta, si ritrovino richiami alla tradizione popolare russa, così come va ricordato che il nobile, discreto violinista dilettante, supportò economicamente anche il Quartetto Schuppanzigh, nel quale suonò in alcune occasioni come secondo violino.
Ed ora uno sguardo ai componenti del Quartetto Gagliano, Carlo Dumont e Sergio Carnevale (violini), Luciano Barbieri (viola) e Manuela Albano (violoncello), grandi protagonisti dell’intero ciclo, rivolto ad un genere cameristico al quale Beethoven fornì un apporto decisivo.
Anche in questo ultimo appuntamento, l’ensemble ha saputo fornire un’interpretazione che faceva risaltare l’estrema modernità di un pezzo quanto mai complesso come la “Grande Fuga” e le sonorità piacevoli ed avvolgenti dell’ultimo “Quartetto Razumovsky”, il tutto contraddistinto da grande compattezza e solidità esecutiva.
Ricordiamo ancora l’esauriente presentazione del noto musicologo Massimo Lo Iacono ed i ringraziamenti del maestro Dumont a EnerGas, che ha supportato l’intero ciclo di concerti, ed alla Fondazione Pietà dei Turchini che ha ospitato gli ultimi due appuntamenti.
Non poteva mancare un ultimo bis ed è stata scelta la cavatina, dall’op. 130 (fra i brani lanciati nello spazio dalla navicella Voyager, contenuti in un più ampio messaggio partito dalla Terra a beneficio di eventuali altre civiltà) conclusione quanto mai struggente di un ottimo ciclo che ha fatto conoscere le diverse sfaccettature del quartettismo beethoveniano.
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