La storia della musica barocca latino-americana si incrocia con quel fenomeno, unico nel suo genere, costituito dalle comunità fondate dai Gesuiti, giunti nel Nuovo Mondo per convertire gli Indios, formate esclusivamente da popolazioni locali.
Sorte a partire dal 1609, in una zona che attualmente attraversa Equador, Perù, Bolivia e Paraguay, presero il nome di “reducciones”, in quanto le attività degli indigeni si dovevano svolgere in aree geograficamente limitate, con il vantaggio, però, di un’autonomia politica ed amministrativa, posta sotto la tutela dei missionari.
L’esperimento, rivoluzionario per l’epoca, ebbe vita difficile e si chiuse nel 1766, anno nel quale i Gesuiti furono espulsi ed i loro beni confiscati.
Nell’ambito delle “riduzioni”, la musica occupò un posto fondamentale come veicolo di evangelizzazione, poiché i religiosi fecero leva sull’eccezionale sensibilità artistica dei popoli da cristianizzare.
Così, pur portando le loro esperienze essenzialmente barocche, le fusero con stili, strumenti e idiomi delle popolazioni con le quali vennero a contatto, dando vita a brani di grande originalità e suggestione.
Il filone è emerso soltanto a partire dai primi anni ’70 del Novecento, grazie alla scoperta, a dir poco eccezionale, di un gruppo di manoscritti, nella chiesa della riduzione di Chiquitos (Bolivia), dovuta all’architetto svizzero Hans Roth, seguita dal recupero di ulteriori documenti, conservati in altre chiese di quella vasta zona geografica.
Tutto questo materiale, cha ammonta a circa 5.500 spartiti, è attualmente conservato a Concepción (Bolivia), ma non è il solo a testimoniare il fiorire di tale repertorio, in quanto anche negli archivi di molte cattedrali, appartenenti a paesi dove le “riduzioni” non ebbero modo di diffondersi, come il Messico, sono state rinvenute numerose raccolte.
Un patrimonio di inestimabile ricchezza, dal quale ha attinto il musicologo svedese Peter Pontvik, che con il gruppo vocale-strumentale Ensemble Villancico, da lui fondato nel 1995, ha presentato a Napoli, per la stagione della Fondazione Pietà de’ Turchini, l’esordio italiano dello spettacolo “Serenissima una noche”.
Il programma comprendeva prevalentemente pezzi di musica sacra, sia di autori anonimi e musicisti sudamericani (gli ecuadoriani Joseph Hortuño e Manuel Blasco), sia di compositori europei trapiantati in Sudamerica (gli spagnoli Juan de Araújo, Lucas Ruíz de Ribayaz, Gutierre Fernández Hidalgo ed il portoghese Gaspar Fernandes), oppure in Messico (gli iberici Fray Gerónimo Gonzáles e Juan Gutiérrez de Padilla).
Per quanto riguarda la provenienza dei brani, frutto delle lunghe e assidue ricerche di Pontvik (autore anche di molte trascrizioni), le fonti principali risultavano il Codex Ibarra (1680) e la Collezione Ascencio Pauta (XVIII-XIX secolo), entrambi ecuadoriani, il peruviano Codex Martínez Compañón (1783-1785), e gli archivi di chiese messicane e boliviane
Nel complesso un panorama storico-musicale interessantissimo, caratterizzato da pezzi piacevoli e dal ritmo incalzante, che evidenziava pienamente le atmosfere legate ad una religiosità talora ingenua, ma viva, che contraddistingueva (e in parte ancora contraddistingue), le popolazioni latino-americane, il tutto sottolineato da una compagine compatta ed affiatata, di straordinaria bravura, dotata anche di notevole presenza scenica.
E’ quindi indispensabile nominare tutti i suoi componenti, ottimamente diretti da Peter Pontvik, a cominciare dalle bellissime voci di Jessica Bäcklund e Helena Wall Ströberg (soprani), Dan Johansson (controtenore e anche cembalista), Charlotta Hedberg (contralto), Love Tronner e Emanuel Roll (tenori), Yamandú Pontvik (baritono) ed Erik Arnelöf (basso).
La parte strumentale era invece affidata ai bravissimi Markus Ström (flauti dolci), Karl Nyhlin (chitarra barocca), Magdalena Mårding (viola da gamba) e Tomas Lindberg (percussioni), ed infine vanno ricordati i due danzatori, Daniela Pontvik Valero e Niklas Blomqvist, confrontatisi molto bene con alcune danze barocche.
Unico neo della serata, la presenza di un pubblico meno numeroso rispetto all’eccezionalità dell’evento, ma è un fenomeno che ultimamente stiamo notando più o meno in tutte le rassegne cittadine che seguiamo.
Al proposito, abbiamo la netta impressione che a Napoli la schiera degli appassionati, abituata per anni ad adagiarsi su programmi “rassicuranti” (verrebbe da dire quasi narcotizzata), appaia non solo incapace di comprendere l’effettivo valore di una proposta, ma consideri ogni novità come qualcosa di estraneo e, in quanto tale, passibile di scarso o nullo approfondimento.
Dal canto nostro, non possiamo che concludere con i ringraziamenti all’Ensemble Villancico ed al suo direttore Peter Pontvik, per la splendida esibizione, ed alla Fondazione Pietà de’ Turchini, meritevole di aver portato a Napoli una compagine di assoluto livello internazionale.
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