“The Veremonda Resurrection” di Allison Zurfluh descrive l’affascinante storia dell’allestimento in tempi moderni di un’opera seicentesca

Pietro Francesco Caletti-Bruni (1602-1676) nacque a Crema quando la cittadina lombarda era sotto il dominio della Repubblica di Venezia.
Meglio noto come Francesco Cavalli, in quanto volle assumere il cognome del suo mecenate (il nobile veneziano Federico Cavalli), il musicista fu fra i massimi rappresentanti degli albori del periodo barocco.
Entrato a 14 anni nell’organico del Coro della Basilica di San Marco, all’epoca diretto da Monteverdi, Cavalli proseguì la sua carriera come organista e, in età più matura, si dedicò alla composizione di opere.
Dal 1639 al 1673 scrisse circa una quarantina di lavori e, pur riconoscendo il suo elevato valore, fino a pochi anni fa gli studiosi lo consideravano un mero prosecutore del cammino tracciato da Monteverdi.
Ricerche più recenti hanno fortemente rivalutato la sua figura in quanto ebbe, fra l’altro, il grande merito di far uscire il nascente melodramma dall’ambito esclusivo delle corti, proponendone la diffusione anche fra gli altri strati sociali, iniziando così quel percorso che avrebbe dato al genere enorme popolarità.
Cavalli, in qualità di Primo maestro di cappella della Basilica di San Marco (ruolo ricoperto dal 1668 alla morte), compose anche molta musica sacra, giunta a noi solo in parte, sotto forma di due raccolte.
Ritornando alla produzione profana, ventisette delle sue quaranta opere sono attualmente reperibili nella loro completezza, conservate in discrete condizioni, per la maggior parte nella Biblioteca Marciana di Venezia, grazie alla lungimiranza dell’autore, che fece rilegare i manoscritti su un resistente supporto di cuoio.
Ma il loro destino seguì quello di molti altri lavori dell’epoca, che dopo il loro esordio caddero nell’oblio più totale.
Il motivo principale era legato al fatto che il pubblico di allora esigeva costantemente delle novità, per cui un’opera, a prescindere dal successo ottenuto, raramente conosceva repliche negli anni seguenti a quello della sua prima rappresentazione.
Avvenne così anche per “Veremonda, l’amazzone di Aragona” (nota anche come “Il Delio”), allestita quasi certamente nel gennaio 1652, al Teatro dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia, per la quale Cavalli si avvalse dei testi di Giacinto Andrea Cicognini, revisionati da Luigi Zorzisto (anagramma dietro il quale volle celarsi Giulio Strozzi).
L’opera venne quindi riproposta nel dicembre dello stesso anno, al Teatro del Palazzo Reale di Napoli, con diversi cambiamenti, in quanto inserita fra gli eventi celebrativi della riconquista di Barcellona, atto conclusivo di un lungo conflitto, che vide la contrapposizione fra le truppe spagnole e i rivoltosi catalani, appoggiati dalla Francia (va ricordato che Napoli all’epoca era sotto il dominio della Spagna).
Da quel momento la “Veremonda” finì nel dimenticatoio, sporadicamente citata in saggi per addetti ai lavori, principalmente dedicati alla figura di Cavalli, ma mai rappresentata.
Tutto questo fino a tre anni fa, quando grazie ad una serie di fortunate combinazioni, ha conosciuto la “prima” in tempi moderni a Charleston (South Carolina), nell’ambito dello Spoleto Festival.
L’avvincente storia di questo allestimento è alla base del bellissimo volume in lingua inglese, intitolato “The Veremonda Resurrection” (Gli Ori editore, Pistoia), curato dalla nota giornalista svizzera di origini americane Allison Zurfluh e riccamente illustrato dalle immagini del fotografo ginevrino di fama internazionale Michel Juvet.
Nel capitolo introduttivo la Zurfluh riassume brevemente la storia dell’incontro quasi casuale con Juvet, rivelatosi quanto mai fruttuoso e fortemente sinergico (il fotografo ha fin dall’inizio espresso la ferma volontà di rifiutare una certa oleografia che circonda Venezia, e per tale motivo ha evitato di scattare e pubblicare foto di gondole), l’impatto iniziale con il variegato universo che gravita intorno al mondo dell’opera nonché la sua familiarizzazione con “Veremonda”.
La parola va poi a Wendy Heller, professoressa di Storia della Musica e presidente del Dipartimento di Musica alla Princeton University, docente specializzata nell’opera italiana del XVII e XVIII secolo e, in particolare, curatrice dell’edizione critica della “Veremonda”, pubblicata nel 2017 da Bärenreiter.
E’ quindi la volta di un excursus sui luoghi legati alla lunga permanenza veneziana di Cavalli (compresa la chiesa di San Lorenzo in Castello, dove riposano le sue spoglie, chiusa all’epoca della pubblicazione del libro, oggi in concessione alla Fondazione Thyssen-Bornemisza), e ad episodi storici citati nell’opera.
Insieme al maestro australiano Aaron Carpenè, al quale è stata affidata la conduzione dell’opera, entriamo nella Biblioteca Marciana, accolti dal direttore Maurizio Messina, che ha messo a disposizione il manoscritto originale, sebbene sulla rete lo spartito esista in formato digitalizzato, non sufficiente però a risolvere una serie di problematiche, a cominciare dalla presenza di tre calligrafie differenti e di numerosi segni di modifiche o aggiunte (giustificate spesso dalla già citata duplice destinazione, veneziana e napoletana, del lavoro).
Sempre Carpenè ci spiega, in un successivo capitolo, le ulteriori difficoltà di far vivere sulle scene, e a distanza di più di 350 anni, quanto riportato sulla carta.
E, a proposito di scene, da Venezia ci si sposta a Torino, dove vive e lavora Ugo Nespolo, famoso pittore e scultore che si ispira alla pop art, responsabile della scenografia e della ideazione dei costumi.
La lavorazione di questi ultimi si avvale invece della Farani Sartoria Teatrale di Luigi Piccolo, azienda romana fondata negli anni ’60, inizialmente orientata verso il cinema e vincitrice di due premi Oscar, che alla fine degli anni ’70, in seguito al declino in Italia del settore, si è riconvertita al teatro ed all’opera.
E’ ora di volare al di là dell’oceano, a Charleston, dove si trova il Dock Street Theater, sede dell’esordio in tempi moderni di “Veremonda, l’amazzone di Aragona”, inserita nel cartellone dello Spoleto Festival 2015, manifestazione voluta dal maestro Gian Carlo Menotti, la cui prima edizione risale al 1977.
All’epoca il grande compositore era alla ricerca di un luogo che potesse ospitare una rassegna simile al “Festival dei Due Mondi”, da lui fondato in Umbria nel 1958, e la scelta del compositore cadde su Charleston, in quanto la città della Carolina del Sud gli sembrò molto vicina alla realtà europea.
Una sensazione confermata anche dalla Zurfluh che, per l’occasione, era anche circondata da un cast proveniente per metà dal vecchio continente (e italiano in particolare).
Questa parte del libro, che precede una serie di immagini vive e meravigliose della rappresentazione, si completa con un breve accenno al backstage, alla trama dell’opera (ingarbugliata come ogni capolavoro barocco che si rispetti) e all’elenco di tutti i protagonisti.
La conclusione è dedicata alle interviste.
La prima, e maggiormente approfondita, fa emergere la figura del napoletano Stefano Vizioli, regista dell’opera, che narra le sue esperienze precedenti, e l’impatto e le soluzioni scelte per adattare ai nostri giorni un’opera barocca, senza snaturarne i contenuti.
Le altre interviste, più brevi ma comunque esaurienti, mettono in luce i vari componenti del cast vocale (manca all’appello solo il basso-baritono Joseph Barron), partendo dal mezzosoprano statunitense Vivica Genaux (Veremonda), proseguendo con il controtenore Raffaele Pe (Delio), il soprano Francesca Lombardi Mazzulli (Zelemina), il controtenore russo Andrey Namzer (Re Alfonso/Il Sole) ed il mezzosoprano Céline Ricci (Vespina), e chiudendo con gli americani Brian Downen (tenore, Zeriffo/Il Crepuscolo), Steven Cole (“character tenor”, Don Buscone), Michael Maniaci (controtenore, Zaida), Jason Budd (basso-baritono, Giacutte) e Danielle Talamantes (soprano, Sergente Maggiore), il tutto corredato da splendidi ritratti fotografici di Michel Juvet.
Al termine della lettura, l’unico rammarico, indipendente dai curatori di questo bellissimo libro, consiste nel fatto che non c’è alcun filmato dell’allestimento americano.
Un vero peccato, ma al tempo stesso un ulteriore motivo per acquisire il volume, che rimane una testimonianza unica ed irripetibile di un evento di eccezionale portata, le cui suggestioni sono state pienamente trasmesse grazie all’appassionante resoconto di Allison Zurfluh e alle meravigliose fotografie di Michel Juvet.

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