L’attitudine esasperata a festeggiare risulta uno degli argomenti preferiti quando si vuole denigrare il popolo napoletano.
Probabilmente tale luogo comune ha avuto origine a cavallo fra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, periodo durante il quale, fra cerimonie religiose legate al calendario liturgico, celebrazioni dei santi protettori (oggi 52, compreso S. Gennaro, ma all’epoca i compatroni già superavano la trentina) ed eventi “laici”, promossi dai dominatori di turno, effettivamente a Napoli non c’era giorno che non si svolgesse qualche festa.
Il tema è stato al centro di un piacevolissimo concerto, tenutosi al teatro Sannazaro verso la fine di Carnevale, nell’ambito della stagione dell’Associazione Alessandro Scarlatti, che ha avuto come protagonisti la Cappella Neapolitana, diretta dal maestro Antonio Florio, il tenore Giuseppe De Vittorio ed il soprano Valentina Varriale.
La serata, dal titolo “Festa Napoletana, maschere follie e travestimenti nel teatro comico napoletano”, ha proposto una serie di brani ed autori che nell’ultimo trentennio sono stati oggetto di studi approfonditi, e corrispondenti incisioni discografiche, da parte del maestro Florio e dei suoi collaboratori.
Dopo l’apertura con un Canto dei carrettieri di autore anonimo, si passava al napoletano Michelangelo Faggioli (1666-1733), oggi quasi sconosciuto, pur risultando il padre dell’opera buffa, genere da lui inaugurato con “La Cilla”, rappresentata nel palazzo del principe di Chiusano nel 1707, della quale abbiamo ascoltato l’onomatopeica tarantella a 2 voci “La Catubba”,
Toccava, quindi, a Francesco Provenzale (1624-1704), figura fondamentale per la Scuola operistica napoletana, docente apprezzatissimo, che fu primo maestro del Conservatorio di Santa Maria di Loreto e del Conservatorio della Pietà dei Turchini, nonché maestro di cappella in alcune delle più importanti chiese e congregazioni di Napoli.
Al suo repertorio appartenevano la Sinfonia e l’aria di Sciarra “Me sento ‘na cosa”, da “Il Schiavo di sua Moglie”, la cui “prima” ebbe luogo al Teatro di Corte nel 1672.
Era poi la volta di Leonardo Vinci (1690 –1730), nativo di Strongoli, tra gli autori più noti e richiesti della prima metà del Settecento, che fu allievo di Gaetano Greco al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo.
Dalla produzione del musicista pugliese abbiamo ascoltato, alternati ai pezzi di altri musaicisti l’aria “So le ssorva e le nespol’amare” e il duetto “Che bella ‘nzalatell”, tratti da “Lo cecato fauzo” (prima “commedia per musica” del musicista calabrese, su testi di Aniello Piscopo, allestita nel 1719 al Teatro dei Fiorentini), due sinfonie, una delle quali da “Partenope”, opera proposta al Teatro San Giovanni Grisostomo di Venezia in occasione del carnevale del 1725, ed infine l’aria di Ciomma “Da me che bbuo’ se sa” e l’aria di Meneca, “L’uommo è comm’a ‘nu piezzo de pane”, entrambe inserite nella commedia “Li Zite ‘ngalera”, su libretto di Bernardo Saddumene, che esordì al Teatro dei Fiorentini nel 1722.
La prima parte si chiudeva con l’aria di Carmosina “Tengo treglie rossolelle” ed il duetto di Pulcinella e Carmosina “Gioia de st’arma mia” dal “Pulcinella vendicato nel ritorno di Marechiaro” di Giovanni Paisiello (1740-1816), farsetta posta come ultimo atto della commedia “L’Osteria di Marechiaro”.
Quest’ultima, scritta da Francesco Cerlone e basata su una fusione fra racconti della tradizione napoletana ed araba, era stata portata inizialmente in scena nel 1768 da Giacomo Insanguine, detto “Il Monopoli”, con discreti riscontri, ma l’anno seguente venne affidata a Paisiello, ricevendo un successo ancora superiore, in quanto l’allestimento conobbe in totale un centinaio di repliche.
Dopo il breve intervallo, il concerto riprendeva con la cantata “Sosutose ‘no juorno de’ dormire” di Niccolò Grillo, vissuto nel XVIII secolo, del quale si sa solo che fu docente al conservatorio di Sant’Onofrio a Porta Capuana.
Un po’ più famoso Leonardo Leo (1694 –1744), pugliese che studiò con Provenzale e Fago al Conservatorio della Pietà de’ Turchini, dove ricoprì poi vari ruoli in qualità di docente, fino a diventare primo maestro nel 1741 al posto di Fago e conseguì il medesimo incarico anche al Conservatorio di Sant’Onofrio a Porta Capuana, succedendo a Feo nel 1739.
Da “Alidoro” (1740), opera della piena maturità, su testi di Gennarantonio Federico, recuperata dall’archivio musicale dell’Abbazia di Montecassino e riproposta nel 2008 al Teatro Mercadante, abbiamo ascoltato “Chesta è la regola”, aria di Zeza tavernara.
Penultimo compositore della serata Giuseppe De Majo (1697-1771), allievo di Fago al Conservatorio della Pietà dei Turchini, autore dell’aria “Quanno lo pesce è vivo”, da “Lo Finto Lacchejo”, su libretto di Bernardo Saddumene, che segnò il suo debutto operistico al Teatro dei Fiorentini nel 1725, mentre la chiusura era rivolta all’intermezzo a 2 voci con violini “Graziello e Nella” di Giuseppe Petrini (sec. XVIII).
Uno sguardo ora sugli interpreti, la Cappella Neapolitana, diretta da Antonio Florio, il soprano Valentina Varriale ed il tenore Giuseppe De Vittorio.
La prima, formata nell’occasione da Alessandro Ciccolini (primo violino), Patrizio Focardi e Paolo Cantamessa (violini I), Marco Piantoni, Nunzia Sorrentino e Massimo Percivaldi (violini II), Rosario Di Meglio (viola), Alberto Guerrero (violoncello), Giorgio Sanvito (contrabbasso) e Patrizia Varone (cembalo) ha evidenziato, come sempre, perfetto affiatamento e grande compattezza, frutto di un ultratrentennale cammino comune nel nome della musica barocca.
Tali peculiarità trasparivano sia nelle sinfonie di Vinci, sia nei numerosi brani affidati ai due cantanti, con i quali vi era un’ottima intesa.
A proposito di questi ultimi, va sottolineata la loro straordinaria bravura come singoli interpreti, che raggiungeva l’apice nel momento in cui si sono uniti per dare vita al duetto di Paisiello ed all’intermezzo di Petrini, grazie al fatto che Giuseppe De Vittorio non ha tentato né di imporsi, né di rivaleggiare con una partner più giovane e comunque prestigiosissima, ma ha messo la sua enorme esperienza al servizio dell’insieme, dando vita a eccezionali sinergie.
Pubblico numeroso e partecipe, che si è divertito molto ed ha applaudito lungamente i protagonisti, che hanno contraccambiato proponendo ben due bis, il brioso Fandango appartenente ad una zarzuela dello spagnolo José de Nebra (1702-1768) e lo struggente “Lu cardillo”, classico della canzone napoletana, di autore anonimo del Sei-Settecento, rielaborato a metà dell’Ottocento da Ernesto Del Preite e Pietro Labriola, splendida conclusione di un concerto di elevatissimo valore.
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