Una eccezionale Roberta Invernizzi si confronta con il repertorio britannico ed italiano compreso fra tardo Rinascimento e albori del Barocco

Foto Giancarlo de Luca

La stagione dell’Associazione Alessandro Scarlatti ha proposto, al Teatro Sannazaro, il concerto del soprano Roberta Invernizzi, accompagnato da Franco Pavan (liuto e tiorba) e Ugo Di Giovanni (liuto e arciliuto).
In programma una panoramica che andava prevalentemente dalla fine del Cinquecento a metà del Seicento, rivolta alle songs britanniche e agli albori di quella che sarebbe diventata l’aria italiana, completata da alcuni brani strumentali dello stesso periodo.
La serata si apriva con Robert Johnson (ca. 1583 – 1634), autore di numerosi brani per voce e liuto, alcuni dei quali concepiti espressamente per gli allestimenti di lavori shakespeariani come “Cimbelino”, “Il racconto d’inverno” e “La tempesta”.
Si proseguiva, quindi, con le composizioni strumentali di Thomas Robinson (ca. 1560-1610) e John Dowland (1563-1626).
Del primo si sa piuttosto poco, tranne che fu al servizio del duca di Exeter e poi alla corte di Danimarca, dove anche Dowland soggiornò dal 1598 al 1606, in qualità di docente e liutista, risultando uno degli artisti più pagati in assoluto in terra danese, nell’ambito di una carriera iniziata in Francia e conclusasi a Londra.
Diversi anni dopo, il genere della song venne ripreso da Henry Purcell (1659-1695), ancora oggi considerato fra i massimi autori britannici di tutti i tempi.
Il compositore cercò di recuperare quella tradizione, interrotta dalle lotte religiose che avevano portato alla temporanea affermazione del Puritanesimo, ripercuotendosi in modo nefasto soprattutto nei confronti della musica profana.
A causa della prematura dipartita, Purcell fu impossibilitato a completare la sua opera pur se, dalla produzione arrivata fino a noi, si comprende come fosse riuscito ad indicare una strada da percorrere, che venne intrapresa da chi arrivò in seguito, ma nessuno riuscì ad eguagliarlo.
Dopo un breve intervallo si passava alla pagina italiana, che metteva in evidenza Giulio Caccini (ca. 1545-1618), Claudio Monteverdi (1567-1643), Tarquinio Merula (1594/95 – 1665) e Johann Hieronymus Kapsberger (ca. 1580-1651).
Caccini, del quale nel 2018 cade il 400° anniversario della morte, era nativo di Tivoli o di Roma, ma fu per molti anni attivo a Firenze come cantante, musicista e docente.
Autore estremamente importante nell’ambito della musica vocale, si attribuì la creazione di uno stile, da lui definito recitativo, che caldeggiava la sostituzione del madrigale polifonico con quello monodico, appoggiato in questa scelta dalla fiorentina Camerata de’ Bardi, del quale faceva parte, insieme ad altre illustri figure come Pietro Strozzi, Vincenzo Galilei (padre di Galileo), Ottavio Rinuccini e Giovanni Battista Guarini.
In tal modo si ponevano le basi della nascita e del successivo sviluppo dell’aria, e la sua conseguente utilizzazione nel genere operistico, che all’epoca stava muovendo i primi passi.
In realtà, le effettive origini di tale stile, come sostiene il noto musicologo Dinko Fabris, andrebbero ricercate nelle villanelle create a Napoli, diversi decenni prima, dai compositori che gravitavano intorno alla corte del principe Ferrante Sanseverino.
Quando quest’ultimo, per motivi politici, fu esiliato  e si spostò a Roma, molti artisti lo seguirono, diffondendo negli ambienti romani il cosiddetto “cantare alla napolitana” che Caccini dovette sicuramente ascoltare ed assorbire, per poi riproporlo, come sua creazione, nel momento in cui si stava affermando a Firenze.
Riguardo a Monteverdi, che gode di una maggiore notorietà, rappresenta indubbiamente una figura cruciale del passaggio dalla musica rinascimentale a quella barocca, tanto da essere considerato, a seconda dei punti di vista, l’ultimo baluardo della polifonia ed il precursore di un genere che avrebbe tenuto banco per circa 150 anni.
Ciò non va considerato un paradosso, in quanto nella sua produzione è possibile riscontrare l’influenza della scuola veneziana, a sua volta debitrice della polifonia fiamminga, così come le istanze “moderne”, punto di partenza per lo sviluppo del melodramma, peculiarità evidenziata dai brani proposti durante il concerto.
Meno famoso, sebbene figura di primaria importanza, il bussetano Merula portò avanti una intensa carriera fra Cremona (dove sarebbe tornato più volte, trascorrendo lì anche gli ultimi anni di vita), Lodi, Bergamo e Padova, con una parentesi polacca, durata circa quattro anni, alla corte di re Sigismondo III.
Se, per quanto concerne il melodramma, seguì la scia di Monteverdi, per altri generi quali la sonata da chiesa e la cantata fornì invece un personalissimo apporto.
Famosissimo ai suoi tempi, Kapsberger venne soprannominato “Il tedesco della tiorba”, poiché il padre, colonnello di origini nobili di stanza a Venezia, era nato in Germania.
In effetti di tedesco il musicista aveva solo nome e cognome e, dopo essersi formato nella città natale, si spostò a Roma, dove portò avanti una carriera molto prestigiosa nella veste di compositore, di virtuoso della tiorba e del liuto, e di organizzatore di “accademie” che si svolgevano nella sua lussuosa residenza, fornendo un forte impulso al movimento artistico della città.
Il suo particolare stile si caratterizzava per la presenza di notevoli arditezze, che evidenziano talora una fortissima affinità con la musica del Novecento.
Dopo questa dissertazione, dalla quale si evince la qualità degli autori, uno sguardo conclusivo su Roberta Invernizzi, Franco Pavan e Ugo Di Giovanni, artisti di livello internazionale, il cui primo merito è stato quello di confezionare un programma che ha costantemente avvinto il pubblico, senza mai generare quel senso di ripetitività, sempre in agguato quando si propone un repertorio di questo tipo.
Così, la splendida vocalità della Invernizzi, a suo agio sia nelle songs inglesi che nei brani di autori italiani, evidenziava nel contempo una serie di brani di argomento principalmente amoroso, esaltati dall’intensità interpretativa del soprano.
Dal canto loro Franco Pavan e Ugo Di Giovanni, affiatati accompagnatori e raffinatissimi solisti, mettevano in luce le sfaccettature, la bellezza e, talora, la sorprendente modernità di pezzi che risalivano a più di quattro secoli fa.
Pubblico numeroso e attentissimo, anche se abbiamo notato qualche vuoto di troppo nei posti di platea riservati agli abbonati, frutto probabilmente della fastidiosa influenza che ancora affligge buona parte della cittadinanza, unita alla scarsa propensione, in generale, nei confronti di questo particolare genere di musica.
Grandissimo successo conclusivo e, a coronamento della serata, bis dedicato a Caccini, con la celebre Amarilli mia bella, su testi di Giovanni Battista Guarini, preceduta dall’augurio del maestro Pavan, nel ruolo di portavoce dei tre protagonisti, che il quarto centenario della morte del compositore non passi inosservato.

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