La classe di Joaquín Achúcarro illumina il “Maggio della Musica”

Foto Flaviana Frascogna

Foto Flaviana Frascogna

La Veranda Neoclassica di Villa Pignatelli ha ospitato, nell’ambito della rassegna “Maggio della Musica”, il pianista Joaquín Achúcarro, nato a Bilbao nel 1936.
Il recital del musicista, che tornava a Napoli dopo quasi venti anni, si è aperto con le Sedici variazioni su un tema di Schumann, op. 9 di Brahms.
Composte nel 1854, si avvalevano di un motivo tratto dai Bunte Blätter op. 99, utilizzato l’anno precedente anche da Clara Schumann, dedicataria del brano.
E gran parte del lavoro risulta essere una dichiarazione d’amore a Clara, talora velata, in altri casi meno, come nella variazione n. 10, costruita su un suo tema.
Dal canto suo Schumann che, all’epoca, era stato da poco internato in manicomio, viene ricordato nella malinconica variazione n. 15.
Sempre Clara era al centro della Fantasia in do maggiore, composta da Robert Schumann nel 1836 per un’ occasione abbastanza particolare.
Quell’anno, infatti, la città di Bonn aveva deciso di erigere un monumento a Beethoven, chiedendo a Liszt di occuparsi della raccolta dei fondi.
L’autore ungherese pensò di chiamare alcuni suoi colleghi, invitandoli a scrivere un pezzo celebrativo, contando di ricavare, dalla vendita degli spartiti, una discreta somma da destinare all’iniziativa.
Schumann contribuì con una sonata in tre tempi, intitolati Ruinen, Trophäen, Palmen (Rovine, Trofei, Palme) che, sotto il pretesto della commemorazione beethoveniana, erano di natura fortemente autobiografica.
A riprova di ciò, ad esempio, la prima parte della composizione conteneva una citazione del lied di Beethoven “An die ferne Geliebte” (All’amata lontana), chiara allusione al distacco di Schumann da Clara, che proprio nel 1836 aveva ricevuto dal padre il divieto di frequentare Robert.
Alla fine il progetto relativo al monumento venne momentaneamente accantonato e Schumann pubblicò il brano nel 1839 con il nome di Fantasia in do maggiore, dedicandolo a Liszt.
Dopo un breve intervallo si è passati agli albori del Novecento, con due dei tre movimenti (El Amor y la Muerte e Serenata del espectro), tratti dal secondo libro della suite Goyescas, completata nel 1911 da Enrique Granados ed ispirata all’opera pittorica di Francisco Goya.
Il recital si è chiuso con l’Alborada del gracioso (L’alba del buffone di corte), appartenente alla suite in cinque movimenti “Miroirs”, che Ravel scrisse fra il 1904 ed il 1905, con dedica ad altrettanti componenti dei cosiddetti “Apaches”, gruppo di avanguardia artistica formatosi nel 1900 a Parigi, al quale apparteneva anche l’autore francese.
In particolare l’Alborada, che fu poi trascritta per orchestra nel 1918, era dedicata a Michel-Dimitri Calvocoressi, figura insigne di scrittore e critico musicale poliglotta, di origini greche, grande sostenitore degli autori russi.
Come si può comprendere da queste poche righe, si trattava di un programma caratterizzato da un repertorio quanto mai complesso, che Joaquín Achúcarro ha interpretato dall’alto della sua enorme esperienza, accumulata lungo una carriera prestigiosa, iniziata più di mezzo secolo fa.
E se, confrontandosi con Brahms e Schumann, ha evidenziato un pianismo quanto mai solido e rigoroso, nella seconda parte ha dato libero sfogo al virtuosismo e alla ricchezza di sfumature, disegnando un Granados ed un Ravel spettacolari, contraddistinti da sonorità straordinarie che raramente abbiamo ascoltato.
A ciò vanno aggiunte le spiegazioni fornite dall’artista, concise ma significative, di ogni brano proposto, precedute dai complimenti a chi aveva redatto le note introduttive sul programma di sala (anche questo pensiamo sia qualcosa di unico) e l’esecuzione di un paio di bis (il Notturno op. 9 per la mano sinistra di Skrjabin ed un Preludio di Chopin).
Alla fine, come ormai avviene sempre più spesso, l’unica nota stonata si deve ad un pubblico al limite dell’ottusità e oltremodo maleducato.
Nel primo caso, non si comprendono altrimenti i motivi che hanno spinto gli spettatori ad applaudire alla fine di ogni parte della Fantasia di Schumann, dopo che il maestro aveva descritto per filo e per segno tempi e durata del pezzo.
Dall’altra dobbiamo malinconicamente segnalare i consueti e ripetuti squilli di cellulare, colpi di tosse di micidiale potenza, soffiate di naso simili a trombe da marcia trionfale dell’Aida e, dulcis in fundo, qualcuno si è divertito a stropicciare, durante l’intero concerto, le suole delle scarpe sul pavimento di marmo rilasciando stridii fastidiosissimi e, cosa ancora peggiore, tutto è stato supinamente accettato anche da chi era seduto vicino a questo spettatore (o spettatrice), che non siamo riusciti ad identificare e che meriterebbe il divieto assoluto di assistere a concerti per i prossimi cinque anni, in una sorta di Daspo musicale.
Prossimo appuntamento, ultimo della sezione estiva del “Maggio della Musica”, con il pianista ceco Jan Bartoš, il cui esordio a Napoli è stato fortemente caldeggiato dal maestro Michele Campanella, direttore artistico della rassegna, che si confronterà con un repertorio legato prevalentemente ad autori del suo paese di origine.

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