Al Teatro di San Carlo un affresco popolare esaltato da una formidabile compagnia

Foto Luciano Romano

Nel 1925 DuBose Heyward, poeta e drammaturgo americano nato a Charleston (Carolina del Sud), in una agiata famiglia di bianchi, scrisse la novella “Porgy”, incentrata su un mendicante storpio di colore, prendendo come riferimento Samuel Smalls, personaggio realmente esistito.
Ambientò la vicenda in un immaginario luogo sulle rive dell’Oceano Atlantico, Catfish Row, nei dintorni di Charleston, abitato da una comunità di Gullah, ovvero neri discendenti degli schiavi originari della Sierra Leone.
Il racconto ebbe molto successo e suggerì a Heyward un adattamento teatrale, al quale collaborò la moglie Dorothy, che venne allestito nel Guild Theatre di New York, ottenendo ben 367 repliche.
Tale versione era differente dalla novella e fu probabilmente questa, molto simile alla successiva trasposizione operistica (e non, come si dice spesso, l’originale del 1925) ad attirare l’attenzione di Gershwin e convincerlo a contattare Heyward.
Per vari motivi, la collaborazione fra i due, che si sarebbe rivelata molto fattiva, ebbe inizio solo nel 1933, e il compositore statunitense andò più volte da Heyward, per “respirare” l’aria di Charleston.
Dopo varie vicissitudini, legate anche alla necessità di trovare un cast formato interamente da cantanti di colore, l’opera, intitolata “Porgy and Bess”, esordì nel settembre del 1935 al Colonial Theatre di Boston, avvalendosi delle musiche di George Gershwin, del libretto di Heyward (tratto dall’adattamento teatrale scritto con la moglie Dorothy), e delle liriche concepite dallo stesso Heyward e da Ira, fratello di George.
Il mese seguente fu la volta della “prima” a New York (Teatro Alvin), che divise la critica, e le appena 124 repliche successive equivalsero alla bocciatura dell’opera, che dovette attendere il 1952 per essere rivalutata dal pubblico americano e apprezzata da quello europeo.
A tal proposito possiamo azzardare che, uno dei motivi dell’insuccesso fosse dovuto al disinteresse del pubblico, formato quasi esclusivamente da bianchi, riguardo ad una vicenda incentrata su una comunità di neri.
Un vero peccato perché Gershwin riuscì ad ottenere, con la sua musica (e il “Summertime” di apertura risulta già fortemente indicativo), delle atmosfere di grande suggestione e perfettamente aderenti alle situazioni descritte, senza mai cadere nell’oleografico, grazie ad una sapiente miscela dove trovavano posto opera lirica, gospel, spiritual e musical.
D’altronde, va ricordato come Scott Joplin, autore di colore che fu il primo a concepire, nel 1910, un’opera con un cast di soli neri, intitolata “Treemonisha”, ambientata in una piantagione di cotone, ebbe ancora meno fortuna, perché non riuscì nemmeno a trovare chi gliela mettesse in scena.
Uno sguardo, ora, sulla trama, che ruota intorno ai due protagonisti, il mendicante storpio Porgy, e Bess, sensuale fidanzata di Crown, facchino portuale aitante e violento che, al termine di una lite scaturita da un diverbio di gioco, uccide Robbins e fugge da Catfish Row per evitare di essere catturato dalla polizia.
Bess non lo segue e si rifugia nel tugurio di Porgy, unico ad accogliere una donna mal vista da tutti per le sue pessime frequentazioni.
Fra i due nasce l’amore, contrastato da Sportin’ Life, venditore di alcolici di contrabbando e spacciatore di droga, il cui sogno è quello di portare Bess con sé a New York, per cui le fa una corte spietata, che passa anche attraverso l’offerta della “polvere della felicità”.
La scena si sposta sui preparativi di un picnic che coinvolge l’intera comunità, tranne Porgy, impossibilitato a muoversi.
Meta da raggiungere è la vicina isola di Kittiwah dove, all’insaputa di tutti, si è rifugiato Crown, che si fa vedere da Bess nel momento in cui la donna sta per avviarsi al battello che la riporterà a Catfish Row.
Bess cerca di resistere, ma la passione per Crown ha il sopravvento e rimane una settimana sull’isola, per poi fuggire e tornare da Porgy, in preda al terrore per il probabile ritorno dell’ex fidanzato.
Nel frattempo il pescatore Jake esce con la sua barca e viene sorpreso dall’arrivo di un violento uragano.
Contemporaneamente assistiamo al ritorno di Crown, che vuole riprendersi Bess, ma prima va verso il mare, per tentare di salvare Clara, moglie di Jake, andata a sua volta alla ricerca disperata del marito.
Anche Crown è dato inizialmente per disperso, ed invece ritorna con la precisa volontà di strappare Bess a Porgy, ma deve fare i conti con il povero storpio che, dopo una violenta lotta, lo uccide.
La comunità si stringe attorno al mendicante e nessuno parla, per cui la polizia convoca Porgy non per incriminarlo, ma solo per procedere al riconoscimento di Crown.
Al suo rifiuto, dettato dalla credenza che il cadavere possa riprendere a sanguinare nel momento in cui sia fissato dall’assassino, viene arrestato e tenuto una settimana in prigione.
Un tempo sufficiente a far sì che Sportin’Life completi la sua opera, facendo credere a Bess che Porgy sarà rilasciato fra non meno di un paio di anni e convincerla a partire insieme a lui per New York.
Sicché Porgy, al suo ritorno dal carcere, si troverà di fronte alla triste realtà, ma non si darà per vinto e, nella scena finale, si comprendono le sue intenzioni di recarsi a New York per ritrovare Bess e riconquistare il suo amore.
Fin qui la trama dove, a ben vedere, non esiste, fra i protagonisti, un solo personaggio positivo, e a prevalere è il peggiore, quello Sportin’Life, venditore di alcolici, spacciatore di droga, irriverente verso tutto e tutti che, senza colpo ferire e senza sporcarsi le mani, raggiunge il suo scopo.
Il finale, poi, appare più un inno all’utopia che alla speranza, perché si fa fatica a pensare che un mendicante così malandato possa, da solo, coprire i circa mille chilometri che separano Charleston da New York, trovare Bess e sottrarla alle grinfie di Sportin’ Life, ma evidentemente nel 1935 bisognava essere necessariamente ottimisti in tutto, per rimarginare velocemente le ferite provocate dalla catastrofe economica, che pochi anni addietro aveva travolto l’America.
Veniamo, quindi, all’allestimento del Teatro di San Carlo, curato dal New York Harlem Theatre, rodatissima compagnia che da anni porta in giro questo capolavoro della musica d’oltreoceano.
Ciò che ci ha colpito fin dai primi momenti, è stata l’estrema compattezza dell’organico, comprensivo di un coro superlativo, chiamato a dare prova di abilità vocali e teatrali quasi paritarie, dove tutti, dai protagonisti principali all’ultima comparsa, contribuivano ad un meccanismo perfetto.
Così, se il soprano Morenike Fadayomi ha disegnato una strepitosa Bess e il basso-baritono Kevin Short si è ottimamente calato nel difficile ruolo di Porgy (che obbliga, fra l’altro, a stare in ginocchio per tutta la durata dell’opera), non è stato da meno il tenore Jermaine Smith, uno Sportin’Life irridente, messo in difficoltà soltanto da Maria la proprietaria della tavola calda del villaggio (una grandiosa Marjorie Wharton), che lo tiene alla larga dai suoi clienti, minacciando di farlo a fettine con il suo coltellaccio da cucina.
Bravissimi anche tutti gli altri, il baritono Michael Redding (Crown), il soprano Kearstin Piper Brown (Clara), alla quale era anche affidato il “Summertime” di apertura, il soprano Alison Buchanan, nel ruolo di Serena, moglie di Robbins, protagonista nella scena della veglia funebre del povero marito e, fra i personaggi secondari, i tenori Clintom Ingram (Peter, venditore di miele) e Chauncey Packer (Mingo e venditore di granchi).
La parte strumentale era affidata all’Orchestra del Teatro di San Carlo, diretta da William Barkhymer (a sua volta direttore artistico della compagnia), la cui prova è apparsa in crescendo con il procedere delle repliche.
Ricordiamo, infine, i registi Larry Marshall e Baayork Lee, quest’ultima anche autrice delle coreografie, lo scenografo Michael Scott, la costumista Christina Giannini e il tecnico delle luci Reinhard Traub, artefici, insieme ai cantanti, di un allestimento che possiamo tranquillamente definire memorabile

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